India, terra di potenzialità per il retail

In un mercato ancora basato sul tradizionale emporio aperto 24 ore su 24, il peso del modern retail diventa sempre più importante: oggi parliamo di una quota del 7%, che nei prossimi tre anni crescerà a un tasso del 20% l'anno (da Gdoweek n. 4)

Crescita demografica, bassi rischi politici, un enorme e inespresso potenziale economico: il mercato indiano retail si conferma uno dei più interessanti per gli investitori stranieri. Secondo i risultati di una ricerca condotta da Deloitte in collaborazione con Rai, Retail Association of India, nel 2016 il modern retail ha generato vendite per 600 miliardi di euro e le previsioni per il 2020 indicano un giro d’affari doppio, determinato dall’incremento degli investimenti provenienti da tutto il mondo, con una crescita del 20% l’anno nel prossimo triennio. “Il modern retail -dichiara Sandro Castaldo, docente all’Sda Bocconi School of Management che ha avviato in India una scuola internazionale di business- pesa solo per il 7% sul totale del mercato del largo consumo, oggi basato sul tradizionale emporio kirana, l’emporio aperto 24 ore su 24 che vende sfuso e si rivolge alla clientela più umile. L’apertura agli investitori non indiani per progetti di partnership con imprenditori locali ha permesso di allargare questo mercato, ma permangono tuttora limitazioni: i capitali stranieri, infatti, non possono salire oltre il 49% rispetto al capitale sociale, il cui controllo rimane in mani indiane. Oggi lo sviluppo di moderne superfici come le intendiamo in occidente è limitato alle grandi aree urbane, dove una ristretta elite ha uno stile di vita e di consumo paragonabile alle classi più abbienti dell’occidente. Ma il subcontinente indino è un territorio enorme, una federazione di Stati con caratteristiche di sviluppo economico e sociale molto differenti tra loro”. Per sostenere lo sviluppo, il governo indiano ha concesso la liberalizzazione degli investimenti stranieri a livello di etailers, ma in futuro è ipotizzabile anche un allargamento del controllo governativo per investimenti in catene, magari introducendo limiti legati alla vendita di prodotti made in India. Un atteggiamento prudente, che vuole difendere l’industria nazionale dal rischio di import sfrenato. “Come in molti Paesi in via di sviluppo -prosegue Castaldo- in India esistono gruppi industriali il cui business è molto ampio: pensiamo al Gruppo Tata, attivo dall’aerospazio al retail, passando per automotive e siderurgia. Questi mega gruppi sono anche responsabili dello sviluppo del retail e dell’approdo di importanti insegne internazionali sul mercato, con partnership secondo varie formule”. Un aspetto che permette di capire meglio le dinamiche di consumo. “Il mercato indiano ha sue peculiarità in termini di procedure e burocrazia, che lo rendono piuttosto ostico per un operatore internazionale abituato agli standard occidentali”.  In ogni caso, grandi opportunità si aprono per il made in Italy, sempre attrattivo per le classi indiane più abbienti. “Il consumatore indiano ha gusti molto differenti dal nostro -conclude Castaldo-: ama colori appariscenti e chiede prodotti “indianizzati”, con caratteristiche simili alle produzioni locali. Un fenomeno cui anche i grandi brand internazionali guardano con attenzione, per realizzare linee ad hoc”.

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