Le strade italiane ormai sature di cibo

Dopo il boom di proposte, lo sreet food necessita di un'armonizzazione normativa per usufruire di nuove opportunità (da Gdoweek n. 4)

C’erano, una volta, furgoncini scalcagnati e carretti d’annata che si appostavano davanti a stadi e palasport per intercettare gli spettatori di una partita di calcio o di un concerto rock e rifocillarli con hamburger, piadine e hot dog spesso unti, di qualità non eccelsa e per niente dietetici. Oppure c’erano le ‘luride’ milanesi, i ‘cuoppi’ napoletani e i ‘manciari’ palermitani. Tutti termini quasi dimenticati per definire, a volte con una sottile vena spregiativa, i venditori ambulanti di cibo o le pietanze proposte: i clienti erano salariati o studenti squattrinati. Poi sono arrivati la crisi economica, il cambio delle abitudini e una vita più frenetica, che mal si adattano ai classici pasti seduti al ristorante. Si è cominciato a mangiare per strada per necessità, per fretta, per spendere poco o per moda. Così lo street food ha fatto boom, è diventato stellato e di tendenza. E si è trasformato in un vero e proprio business, che genera un importante indotto, che va dall’allestimento dei furgoni all’offerta di semilavorati, dal franchising  chiavi  in  mano  all’organizzazione di eventi  e  festival  dedicati  allo  street food, dove si possono spendere anche 15  euro  per  un  panino gourmet e una birra artigianale. Giusto qualche numero: Assotemporary stima che oggi in Italia siano in circolazione 23mila negozi a tre o quattro ruote e Coldiretti informa che in un anno gli operatori sono aumentati del 10% e che almeno il 73% degli italiani consuma abitualmente cibo di strada, spaziando dalle specialità della tradizione regionale o locale a quelle etniche, purché di qualità. Ma in Italia c’è ancora spazio per questo filone imprenditoriale o siamo arrivati alla saturazione? Secondo gli operatori del settore la vena è ancora florida, ma, avvertono, a patto di non improvvisare: servono serietà e professionalità, bisogna pianificare bene. E, mentre c’è chi comincia a sentire l’urgenza di riflettere sui rischi di questo boom, soprattutto in termini di banalizzazione e perdita dell’autenticità, e chi invoca un intervento legislativo per fare chiarezza e garantire i consumatori, qualcun’altro pensa invece a crescere e a esportare l’”italian street food” anche al di fuori dei confini nazionali.

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