Progettare negozi, attività di Permanent Learning

Il retail design, come è noto, è un’attività di costante apprendimento, condizione di evoluzione e cambiamento necessario e non evitabile, ipotesi alla quale non può sfuggire nemmeno la professione di Architetto dedicato ad occuparsi di nuovi concetti di luoghi e di spazi. Per facilitare l’analisi di come è cambiata la progettazione dei negozio, restringo il campo ai 15 anni di questo nuovo millennio che, in quanto a trasformazioni, non ci ha fatto mancare nulla. Se penso alle richieste di progettazione degli anni Duemila, mi rimane la sensazione di un mondo che prendeva consapevolezza dell’importanza delle persone nell’esperienza dello shopping, persone per molti anni oggetto di strategie di marketing, di proposte identitarie da parte di marchi auto celebrativi, di una diffusione esasperata dei concetti di flagship, di rappresentazione lineare del mito del Brand.

Parole e paradigmi degli anni Duemila
Iniziavano in quegli anni riflessioni importanti sull’esperienza circolare del cliente, quella che sottolineava che l’iterazione dell’esperienza, la fidelizzazione, poteva avvenire solo attraverso la condivisione di valori, la libertà e la partecipazione del cliente al processo di selezione delle cose e degli oggetti, la trasparenza delle fonti d’informazioni e la qualità delle filiere. Pochi ma buoni in quegli anni iniziavano a raccontare il valore della tracciabilitá, il ruolo della socialità e dei territori, l’importanza della condivisione. Appariva ancora lontana ai più la dimensione del digitale, erroneamente definito come un antagonista dello shopping tradizionale, non certo un alleato. Da questo punto di vista, il retail sembrava non credere (o forse temere) quella che poi si è dimostrata la vera rivoluzione del nostro tempo: la diffusione delle rete come contenuto sociale e non solo tecnologico della nostra condizione di clienti/consumatori. Human factor, social/community, sharing (condivisione), storytelling le parole alle quale non rinuncerei oggi nell’affrontare qualsiasi attività di progettazione; format, marketing, target, flagship quelle che nel tempo ho percepito come meno significanti nella ricerca dell’innovazione.

Nuove richieste della committenza
In generale quello che interessa i committenti oggi è ricerca di nuovi modelli che siano sostenibili ma innovativi, percepibili ed originali rispetto a quelli insensibili ai segnali del cambiamento. In questo senso per chi si occupa oggi di progettazione creativa, le possibilità di espressione sono decisamente superiori. Messi in crisi da vecchi modelli che privilegiavano gli aspetti finanziari a quelli dello sviluppo dell’impresa, molti imprenditori hanno colto la necessità della dimensione della ricerca e dell’innovazione nel pensare ai propri modelli di business, area che finalmente dopo anni di razionalizzazioni per motivi di budget, è tornata condizione necessaria per la presenza sul mercato. In questo senso la rete e le nuove forme di produzione ed informazione hanno notevolmente aumentato i contributi all’innovazione: penso alle fabbriche creative, ai nuovi artigiani digitali, ai produttori locali, agli organizzatori di eventi e al ruolo della formazione e della educazione nei processi dello shopping e alla costante produzione di nuovi allestimenti che caratterizza la produzione degli architetti e dei designer negli ultimi anni.

L’oggi e l’arte di saper fare
In generale ciò che si è indebolito maggiormente negli scorsi decenni è il retail indipendente, il retail locale, che dopo anni, soprattutto in Italia, di protezionismo e di conservazione, è scomparso troppo velocemente dai nostri centri storici e solo ultimamente ha dimostrato di essere in grado di esprimere segnali di rappresentanza dei territori. Credo che come i Paesi più civili, socialmente parlando, dimostrano un equilibrio tra sensibilità locali e forme più organizzate sia oggi possibile favorire nuove forme di contaminazione e proposte originali nel garantire sviluppo economico e tutela delle culture.
Quindi il riappropriarsi dell’arte del saper fare le cose, l’aprirsi ad interpretazioni artistiche ed artigianali non potrà che favorire il fiorire di una nuova rigenerazione di luoghi all’interno delle nostre città, finalmente tornate al centro della nostra attenzione dopo anni di espansione extraurbana scellerata e di abbandono del nostro patrimonio edilizio.

Il valore dell’italianità
Sotto l’appartenenza all’Italia oggi si possono leggere molte cose, non sempre positive. Tra le negative, senz’altro l’incapacità di riconoscere e tutelare l’enorme valore del nostro patrimonio artistico, culturale, gastronomico, la nostra biodiversità che continua a farci riconoscere internazionalmente come il luogo a cui per qualità della vita e valori estetici e sociali, persone di tutto di mondo dedicano attenzione e rispetto. Questo senso dell’Italia rinnovato e degno del suo passato, più che custode distratto della sua cultura, è oggi un valore competitivo enorme, fortemente sottovalutato soltanto da noi italiani.
La qualità dei nostri artigiani, dei nostri designer, delle nostre industrie devono poter trasferire alle future generazioni vecchi saperi da reinterpretare e rilanciare in nuove dimensioni contemporanee. Il problema dell’italianità oggi sembra gravitare attorno al tema delle scuole come luoghi per ispirare e formare future generazioni in grado di esprimere il senso migliore del nostro Paese. Questa è la nostra responsabilità più grande anche come architetti delle città e del paesaggio italiano.

Le parole chiave dei prossimi anni
Certo il retailer cambierà ancora e si affermeranno nuove parole chiave. Oltre a quelle già citate, ne aggiungo altre dedicate ad un futuro possibile: imprese dedicate alla qualità della vita e al giusto prezzo, spazi temporanei, distretti di commercio e cultura, makers, nuovi artigiani, spazi di innovazione sociale/coworking, spazi didattici, eroi delle culture locali, investitori visionari, arti visive e digitali, buy and sharing e … quelle ancora da scoprire e da scrivere.

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