Unilever: l’industria di marca è tra l’incudine e il martello

Prezzi e grande distribuzione, una tematica critica e di grande attualità sui due fronti della domanda e dell'offerta. Mentre la Gdo, proprio in questi giorni, chiama in causa l'industria di marca come responsabile principe dei rincari, ques'ultima dà una lettura diversa degli eventi. Tira acqua al proprio mulino Paolo Radi, trade categogy e customer marketing director per l'Italia di Unilever, gigante del largo consumo che con i suoi prodotti occupa circa il 5% del nostro stomaco (sotto il suo cappello vi sono marchi come Findus, 4 Salti in Padella, Knorr, Algida, Santa Rosa).
«Il consumatore oggi è più attore del proprio processo di acquisto e più infedele: si cambia facilmente un punto vendita se risulta più conveniente - ha affermato il manager presso un recente convengo in Assolombarda -. Allo stesso modo si è disposti a cambiare marca per risparmiare e, sempre per le stesse ragioni, si va molto alla ricerca delle offerte speciali». Si spiega così il fatto che il trend di crescita del canale discount sia moto più accelerato rispetto al largo consumo, food e non, nel suo complesso: parliamo di un +8,7% in valore (a marzo di quest'anno) contro un più modesto 1,5%. Anche le marche private stanno crescendo da un anno a questa parte più del mercato, raggiungendo lo scorso giugno una quota del 13,2% nel largo consumo, mentre i prodotti di marca con un posizionamento di prezzo più alto soffrono un po'.

Le sofferenze dell'industria di marca
Se le difficoltà del consumatore sono evidenti, non se la passa bene chi c'è dall'altra parte del ciclo: i produttori del largo consumo. Specie, come si è accennato, se si tratta di aziende di marca. Radi parla di incudine e martello: da un lato c'è un consumatore definito “neo-concreto”, sempre alla ricerca del giusto prezzo, mentre dall'altro sull'industria incombe il suo “lato cliente”, che è il canale di vendita della distribuzione. E la dimensione cliente per l'industria produttrice di marca è decisamente rilevante: basti pensare che per Unilever i primi 4 clienti oggi pesano percentualmente sul fatturato più dei primi 4 brand messi insieme.
A evidenziare il peso del canale vi sono anche altri dati. In Unilever Italia, per esempio, la distribuzione oggi assorbe ben l'82% degli investimenti commerciali (tesi a finanziare promozioni al consumo di vario tipo presso i punti di vendita), mentre all'adverstising diretto verso il consumatore finale è dedicato solo il 17% del budget. La prima fetta degli investimenti, tra l'altro, è in costante crescita, determinando una riduzione del fatturato netto.

Le responsabilità della Gdo
Sulle colpe che hanno innescato questo meccanismo perverso Radi non ha dubbi. «I nostri distributori sono capaci di acquistare ma incapaci di vendere, disperdono troppo in costi, hanno livelli di servizio bassi, non aprono punti vendita dove sono i nodi di traffico». E rincara la dose: «l'industria di marca negozia contratti con i distributori seguendo formule vecchissime. Noi perdiamo dai due ai tre mesi ad ogni inizio anno per la fase contrattualistica e ciò qualifica le capacità dei retailer, che cercano marginalità solo nella negoziazione».
In questo modo, osserva ancora il manager di Unilever, il distributore non riesce a trasferire al mercato gli aumenti dei costi delle materie prime e quelli, conseguenti, dei listini attuati dall'industria. Si attua così un circolo vizioso: perdendo margine la distribuzione chiede risorse extra all'industria di marca, la quale per farvi fronte è costretta a ritoccare nuovamente i prezzi. In pratica, l'industria aumenta i prezzi non solo perché aumentano i costi ma anche per le inefficienze del trade.
Per uscire dall'impasse secondo Radi si potrebbero adottare alcuni rimedi. Innanzitutto segmentare più attentamente clienti e prodotti, per cercare nuovi posizionamenti prodotto/prezzo che possano essere comunque vincenti. Poi, è opportuno evitare di spendere in innovazione che sia solo di cosmesi e che non porti reale valore.

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