Flagship e brand una relazione all’insegna di gioco e socialità

Sempre più brand traducono nelle loro reti di vendita nuovi contenuti legati all’arte e alla cultura, con la possibilità di realizzare esperienze ludiche e sociali che vadano oltre la visita nei negozi (da Gdoweek n. 5)

Lo spazio di vendita non si veste soltanto dell’identità del brand, ma si anima della partecipazione dei consumatori, che trovano un luogo dove sperimentare prodotti, attività, esperienze, partecipare emotivamente, socializzare e offrire informazioni utili per altri progetti. Il magnetismo dello store nasce dalla sua capacità di far entrare fisicamente il cliente in alcune dimensioni del brand che non si presenta solo in termini di colori e design, ma interpreta il tipo di “amicizia” che vuole con il consumatore, adottando tecnologie, spazi di incontro, personalizzazione del prodotto, soluzioni ludiche che fanno vivere il marchio come occasione d’intrattenimento e cultura. I flagship sono il laboratorio di questa relazione con la comunità, che riconosce lo spazio commerciale del brand come la giusta cornice della propria esperienza, coerente con la propria immagine: oggi ormai sono luoghi per il tempo libero capaci di generare appartenenza grazie alla condivisione di attività con altre persone che riconoscono i valori iconici di quella determinata marca.

Nello store non si vende più solo il prodotto, ma anche l’energia e l’adrenalina che viene dalla sorpresa o dalla voglia di sperimentare. I primi a insegnare questo concetto sono stati i marchi dell’alta moda, come Prada, che quando aprì il suo store a Soho, nello stesso edificio del Guggenheim Museum, spiegò di voler vivere “una relazione simbiotica con il museo”. Questa ambizione di rendersi luogo di aggregazione, cultura, intrattenimento e di trasformare la tridimensionalità del brand in un luogo “dove andare” è scesa dall’olimpo del lusso, per giungere al mercato di massa. Soprattutto l’attitudine a presentarsi come retailer non è più one shot, legato alla presentazione di un flagship, ma in sempre più casi diventa una nuova vocazione della marca, che attraverso i suoi store si impone come tempio distributivo, mantenendo, a livello di prodotto, relazioni con i distributori multimarca.

Tra i primi ad inaugurare questa visione del punto di vendita monomarca, fatta di esperienza totale del brand legate a comunicazione, immagini, strumenti vari, a metà tra gioco, education ed assistenza, rientra Apple. Per quest’anno il colosso di Silicon Valley ha annunciato la nuova generazione dei suoi store, con l’apertura in Via del Corso a Roma, in stretta collaborazione con il Comune e la Soprintendenza ai beni architettonici. La parola store non sarà utilizzata, perché le aperture Apple rappresentano sempre più punti di attrazione turistica, incontro e formazione.

Un approccio che ha coinvolto anche brand della telefonia come Huawei che ha inaugurato a febbraio il suo flagship a Barcellona, in partnership con il Comune: l’Espai Huawei Barcelona è concepito come uno spazio immersivo in cui i consumatori non solo saranno in grado di conoscere l’ecosistema completo dei prodotti dell’azienda (smartphone, smartwatch, cuffie, tablet o smart glass), le applicazioni Huawei App Services e alcuni dei prodotti non ancora rilasciati, ma godranno anche di esperienze particolari. Lo spazio (750 mq di superficie), si sviluppa su due piani con aree di esperienza ed ospiterà mostre ed esperti in vari temi (stile di vita e tendenze, sport e salute, arte e fotografia, video, multimedia e tecnologia, con sessioni per videogiochi e robotica, intelligenza artificiale).

Anche per Nike e Adidas il flagship (anzi più d’uno) ha un ruolo strategico tale da far diventare i due marchi sinonimo di retailer, come dimostra l’ultimo rapporto Deloitte, che inserisce i due brand nella classifica Global Powers of Retailing 2020 (che valuta 250 retailer per fatturato generato): Nike occupa la posizione numero 88 e Adidas la 136° postazione.

Un approccio da retailer confermato dall’House of Innovation 000 di Nike, aperto a New York a metà 2019, che su 6.000 mq, con il contributo della tecnologia, propone al consumatore personalizzazione di prodotti e allenamenti, occasioni per i programmi fedeltà, storytelling del marchio, ma anche di coinvolgere sportivi immagini in campagne sociale come ha fatto con Giannis Antetokounmpo: di fatto, un prototipo di esperienza che il marchio vuol diffondere in altri punti di vendita e che non manca di condizionare i concorrenti. Per i seguaci dei brand dello streatwear si aprono molte possibilità di vivere lo spazio legato al marchio come luogo per sperimentare se stessi e le proprie performance. The North Face già nel 2016 aveva aperto il suo primo fiore all’occhiello sulla Fifth Avenue, di New York City, caratterizzato da una parete da arrampicata in negozio, posti a sedere in comunità e personalizzazione del prodotto in loco. Ma ora dall’esperienza sportiva i marchi si spostano su quella culturale.

Adidas, ad esempio, dà alla sua strategia di marketing una dimensione sociale, trasferendo la campagna pubblicitaria nello spazio fisico in cui il brand accompagna (e non domina) l’esperienza collettiva. In Italia il protagonista della campagna sociale Change is a Team Sport è il rapper Sfera Ebbasta, che darà vita a uno studio di registrazione aperto a tutti a Cinisello Balsamo (Mi), con il contributo del brand e il supporto di Indie Pride (l’associazione italiana che riunisce il mondo della musica nella lotta a omotransfobia, bullismo e sessismo) e CrossRadio. Un feeling con la musica che animerà anche il flagship di Milano, con incontri e workshop aperti al pubblico con artisti, produttori e addetti ai lavori dell’industria musicale: lo store di fatto diventa così un punto di riferimento per la cultura pop, virando rispetto al concorrente Nike, proponendo un’altra strategia di identità e di contenuti per lo store.

Un esempio di spazio iconico è quello di Supreme, altro marchio della cultura hip pop e punk rock, oggi diventato fashion per gli skater. Il messaggio è semplice: appartenere a una cerchia esclusiva e originale, che fa dell’autenticità la sua cifra stilistica. Molto articolato il modo di far vivere, attraverso gli spazi interni e lo storytelling, l’esperienza del brand. L’autenticità di essere un bravo skater può essere dimostrata sulle rampe degli skate park che già dal primo negozio a Manhattan caratterizzavano gli store Supreme, mentre l’esclusività, nutrita anche da una drop strategy online con lanci di prodotto a tempo, si manifesta nel numero limitato di store originali in giro per il mondo (quest’estate l’apertura a Milano come presidio ai legal fake), e da una vena cult tale da aver “ispirato” il libro Supremacist di David Shapiro. Nel libro, che non sapremo mai se frutto di autentica ispirazione o furba operazione di marketing, il protagonista cerca di rimettere insieme i pezzi della sua vita visitando tutti i negozi Supreme del globo, quasi fossero parti di un puzzle da sistemare per capire il brand. Un gioco di specchi, in cui i creativi Supreme giocano il ruolo del collettivo artistico (sullo stile provocatorio di Banksy), mentre i negozi rappresentano opere abitabili, pezzi di un quadro d’insieme che è l’identità iconica del brand, che parla di autenticità sapendo che è un concetto dell’immaginazione di cui si può artisticamente tenere la regia. Il marchio gioca, divertendosi, il ruolo del feticcio e lo fa integrando anche gli store nella sua “tela”: fra le azioni d’intrattenimento artistico/consumistico rientra la vendita di un mattone con stampato Supreme, il cui prezzo di vendita iniziale di 30 dollari, una volta esaurito, è passato a 1.000 dollari su ebay. Oggi Supreme sta facendo un restyiling del negozio storico a Lafayette Street.

Nella saga non può mancare un cattivo, in questo caso Supreme Italia e Ibf che sta aprendo uno store legal fake in Cina e in una cinquantina di altri Paesi (tra cui Spagna, Portogallo e Israele), dove Supreme non aveva registrato il marchio. Legata a questa sfida anche le voci che vedono la discesa in campo del fondatore James Jebbia a Milano: nessuna ufficialità, solo indizi, fra cui un dettaglio sulla Metallic Jacquard, una maglia nelle cui trame si leggono alcune delle location fisiche degli store di Supreme (Paris, London, New York, e Tokyo compare anche Milano). Ispirato dalla vena provocatoria di artisti illusionisti come Bansky e a interpretare il luogo di vendita come giostra di quel lunapark che è il brand, è anche il flagship VeraLab: il marchio sigla i prodotti dell’Estetista Cinica, inventato da Cristina Fogazzi (questo il vero nome della blogger), che ha prima creato la sua community con l’intrattenimento online per far nascere successivamente un vero e proprio brand, che ha il suo luogo culto nel flagship, meta delle “fagiane” (così si chiamano le sue follower). Il monomarca interpreta lo spirito del brand, da sempre pop, irriverente e originale. “Ci siamo concentrati su un’unica fondamentale domanda -spiega Laura Assini, marketing manager di VeraLab-: cosa spinge un cliente a recarsi direttamente in uno shop, quando potrebbe acquistare comodamente online? Questo è il punto di partenza dal quale è nato il progetto con lo studio d’architettura 23Bassi”. Se le consumatrici erano abituate all’acquisto via eCommerce, il concetto di store ha un altro ruolo, di puro branding. “Il layout deve rispettare esattamente i valori aziendali, per mantenere la relazione coinvolgente con il proprio target -racconta Chiara Frigerio dello studio 23Bassi-. La ricerca ha toccato ogni settore, dal food all’arte contemporanea, utilizzando la contaminazione come elemento “sorpresa” e il tema del luna park, per garantire l’aspetto ludico. Il colore dominante è il rosa che, unitamente al bianco, sono le tonalità utilizzate da VeraLab per i suoi prodotti e per l’immagine aziendale”.

Anche i pop up store assumono un nuovo ruolo per il brand, più emotivo, come nel caso della stanza delle emozioni di Casa Nutella, il pop up store di Ferrero per far assaggiare i nuovi Nutella Biscuits, pensato per chi voleva partecipare attivamente al lancio di un prodotto nato come evento (120 milioni di euro gli investimento richiesti per la tecnologia rivoluzionaria): partito dai social, il momento dell’assaggio è stato trasformato in esperienza collettiva, con le emozioni del coinvolgimento registrate attraverso il riconoscimento facciale in una postazione dedicata. Così il touch point fisico è diventato il luogo di incontro reale dell’entusiasmo nato fra i like. Il concetto di love mark ha utilizzato la tecnologia, non solo per progettare i biscotti, ma anche per registrare la vitalità della community, che ha acceso con la partecipazione il grande cuore tecnologico.

Chiara la conclusione: ormai è sempre più evidente che il virtuale incanta, crea visione e immaginazione, il fisico unisce e consolida fiducia. E i flagship si muovono lungo queste direttrici.

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