Intervista al sociologo Salvo Scibilia sull’umanità come vera forza del brand

"Le marche vanno viste come dei
piccoli vulcani che eruttano valori,
apparentemente in modo indipendente
l'uno dall'altro ma che, nel
sottosuolo, intessono delle linee fitte di
comunicazione e di scambio".
È l'approccio al brand che propone Salvo
Scibilia
, ricercatore di Sociologia della
comunicazione
presso l'Università di
Catania
e studioso delle questioni strategiche
e creative in pubblicità e della
loro applicazione nei processi formativi,
per il quale "la marca ha la prospettiva
di una vita ben più intensa di quella
che gli esperti le organizzano all'interno
di schemi e modelli". Alla marca e alla
private label, soffermandosi sul mondo
Conad, Scibilia ha dedicato un libro,
Human brand. Le strategie di marca e i
sentieri che hanno un cuore (pubblicato
da Fausto Lupetti), da cui prende le
mosse la nostra conversazione.

Human brand. Perché ha scelto questo
titolo?

L'aspirazione delle marche è quella di
muoversi con caratteristiche umane:
età, sviluppo, continuità, decadenza e
soprattutto capacità di essere generatrice
di un proprio linguaggio. Tutte le
categorie relative alla marca sono di origine
psicologica. Si parla di brand identity,
brand profile come se si trattasse di
una persona che presenta un curriculum
vitae. Tutto ruota attorno a questa capacità
di avere caratteristiche riferibili
alle categorie dell'umano. D'altra parte
se è vero che l'aspirazione massima di
una marca è quella di instaurare rapporti
questa umanizzazione ha un suo
fondamento.

Riprendendo il sottotitolo del suo libro,
quali sono i sentieri che hanno un
cuore?

Il rapporto tra consumatore e prodotto
è un rapporto tendenzialmente freddo.
Uno vede un prodotto, gli piace e lo
compra. I sentieri che hanno un cuore
sono le strategie e gli itinerari che gli
ideatori della marca mettono in atto per
poter realizzare un discorso di natura
seduttiva nei confronti della gente e non
solo di mera razionalità commerciale. È
un sentiero che si fa legame e non solo
atto di consumo.

Dunque, la differenza tra un prodotto
vincente e non consiste nel saper conciliare
questi aspetti?

La marca di successo è una marca che
riesce a farsi portatrice di un discorso
credibile e affascinante. Quando diciamo
che la marca comunica vuol dire che
imposta una relazione, lascia intravedere
un mondo, si lascia scoprire attraverso
un suo tratto stilistico, anticipa
certe necessità. Faccio un esempio su
tutti: Apple. L'innovazione non è fatta
solo sulla base degli sviluppi della tecnologia
ma anche sulla comunicazione:
Apple comunica con un linguaggio friendly.
Ricordiamo anche la figura di Steve
Jobs che incarna perfettamente questa
affabilità.

Gli italiani da questo punto di vista
sono carenti?

Da noi tutto è diverso, l'assetto industriale
è di tipo familistico, il 95% delle aziende
ha meno di 15 addetti. E aziende di
questo tipo sono scarsamente tramandabili
(il talento di un artigiano o di un industriale
non può passare in automatico di
padre in figlio) e non sempre sono complete
di figure determinanti come quelle
del marketing. Mancando le categorie del
marketing manca anche la cultura della
comunicazione. In Italia non si sa come
far parlare la marca, la comunicazione è
vissuta come un optional, in momenti di
crisi è la prima cosa che salta.

Il linguaggio pubblicitario si è adeguato
al momento di crisi?

È successo, sì, ma nel senso che la tv ha
perso terreno e la rete l'ha guadagnato.
Ma la questione è un'altra: nell'advertising
tradizionale la forza è data dalla
pressione economico-finanziaria che si
esercita sulla comunicazione, sul web è
lo spot in sé che conta, se è innovativo
e divertente si diffonde facilmente anche
sui social network, altrimenti rimane
confinato nella sua sfera d'azione. Lo
spot della Coloreria italiana (la moglie
mette in lavatrice il marito ormai datato
e ne esce fuori un nero muscoloso)
ha realizzato milioni di visualizzazioni
di contatti, inconcepibili per uno spot
tradizionale”.

Dopo anni di dominio, la marca deve dividere
il mercato con la marca privata.
Perché le insegne commettono questa
sorta di "conflitto di interesse"?


Perché è una buona opportunità. L'inserimento
della cosiddetta marca d'insela
marca
sembra restia
a essere la mera
esecutrice
di una mission
aziendale
gna è un'operazione di grande successo.
Prendiamo il caso Conad: i prodotti sono
buoni, c'è un grande rapporto prezzoqualità,
non fanno rimpiangere le grandi
marche che invece cominciano a soffrire
e il supermercato vende sempre più
spesso i propri articoli.

Lei dedica la seconda parte del suo libro
al mondo Conad. Perché ha focalizzato
l'attenzione su questa insegna?

Perché collaboro con loro da anni e conosco
bene le varie problematiche e le
caratteristiche della catena. E posso
affermare con convinzione che l'inserimento
della marca d'insegna è stata
una scelta vincente. Sapori e dintorni,
per esempio, senza l'intellettualismo
dello slow food, recupera una serie
di sapori e prodotti delle varie regioni
d'Italia e le ripropone su larga scala: il
lardo di Colonnata, la burrata, le arance
tarocco, le lenticchie di Castelluccio,
parliamo di una serie di presidi enogastronomici
importanti che vengono recuperati
e resi democratici, popolari. Io
cliente non ho bisogno di andare fuori
zona per trovarli, basta andare da Conad
e li trovo sullo scaffale.

Quindi, secondo lei, la marca privata
può essere la soluzione vincente in
questi anni di crisi?

La marca d'insegna misura la credibilità
che un retailer ha nei confronti dei propri
clienti. Io credo che ci sarà sempre più
spazio e sempre più sfida tra marche
industriali e d'insegna, la conflittualità
tendenzialmente è destinata ad aumentare.

Ci sono delle eccezioni: le marche
star (come Coca-Cola, Martini, Lavazza
ecc.) che rendono credibile un supermercato.
Se non c'è Barilla, o le sottilette
Kraft, oppure una bella bottiglia
di Chianti il supermercato ne risente.
Ma per il resto vince la marca d'insegna
anche perché non dimentichiamo
un aspetto importante: il punto di vendita
nella pl ci mette la faccia, non può
rischiare di presentare un prodotto che
non sia di qualità e i risultati si vedono
anche nelle vendite.

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