Intervista a Daniele Fornari sul futuro della gdo dopo la crisi

“La crisi sta mettendo in discussione tutta una serie di paradigmi di marketing, tanto che, se cerchiamo di capire gli scenari futuri utilizzando i modelli tradizionali rischiamo di sbagliare”. Partendo da queste premesse, Daniele Fornari, professore di Trade marketing all’Università di Parma e ricercatore al Cermes - Università Bocconi afferma che il retail si deve focalizzare sull’obiettivo di soddisfare i bisogni del consumatore.

Quali sono i paradigmi cui fa riferimento?

Li chiamo paradigmi di marketing, perché quando parliamo di distribuzione, di comportamenti dei consumatori e di politiche commerciali, in qualche modo parliamo di fenomeni di marketing. Se proviamo ad andare indietro di qualche anno e rileggiamo gli scenari previsivi che si facevano per gli ipermercati, si ipotizzava un forte sviluppo delle quote di mercato, mentre per i format di prossimità si assumeva la possibilità di un processo di rilevante ridimensionamento. Si prevedeva, altresì, una espansione del livello di internazionalizzazione del sistema distributivo italiano. Negli ultimi due anni, si sono registrate tendenze opposte con un rallentamento dello sviluppo degli ipermercati, una “rinascita” dei punti di vendita di prossimità riqualificati e addirittura un fenomeno di contrazione della presenza della distribuzione internazionale. E ancora: quando è iniziata la crisi, si pensava che questa avrebbe favorito il discount, come anche i primi prezzi, perché il paradigma utilizzato nel passato era che la crisi economica significava domanda di convenienza e, quindi, orientamento dei consumatori a frequentare punti di vendita con questo tipo di posizionamento.

Invece …

Queste previsioni si sono rivelate meno consistenti, al punto che nessuno è in grado di dire cosa succederà a breve. Gli economisti prevedono andamenti della crisi differenti, rappresentandola con curve di analisi spesso contrapposte. Per alcuni, la crisi sarà molto lunga, per altri si registrano segnali di ripresa. Nouriel Roubini ha sostenuto, in un suo recente studio: “La crisi non è finita”, che i fattori che hanno determinato la situazione attuale sono ancora tutti da rimuovere.
Quindi, se prevediamo uno scenario di ripresa economica nel mercato distributivo si avrà un certo tipo di evoluzione, oppure, diversamente, in assenza di un’effettiva ripresa, si potranno avere altre dinamiche.

C’è anche chi ipotizza anche una ripresa dei processi inflazionistici …

Al riguardo, si confrontano due scuole di pensiero. Una ipotizza che non ci siano rischi di forti variazioni dei prezzi, a causa della bassa domanda e dei consumi stagnanti. Ma c’è invece chi, analizzando le dinamiche dei prezzi delle materie prime, ritiene che potremmo trovarci presto in una situazione inflattiva preoccupante. È evidente che, se l’inflazione dovesse raggiungere livelli alti, la domanda di convenienza dei consumatori avrebbe un ruolo più rilevante e, ancora una volta, potrebbe spingerlo a modificare il livello di preferenza per i canali di vendita e per le politiche commerciali delle imprese.

La gdo deve dunque focalizzarsi maggiormente sulla customer satisfaction?

Sì, assumendo che i consumatori hanno elaborato nuovi modelli di consumo basati sulle logiche del “value for money”, dove value sta per valore e money per convenienza. La percezione che il consumatore ha della convenienza è, comunque, un fatto relativo e soggettivo tanto da giudicare il livello del prezzo dei prodotti e dei pdv in funzione delle contropartite di “valore” ricevute. Queste contropartite riguardano la qualità dei prodotti, la loro funzionalità, il livello di servizio ricevuto nel pdv. Quindi, giudica un dato prezzo alto se non percepisce la contropartita del valore, mentre lo ritiene equo se, a fronte di quel prezzo, pur se alto, riceve una contropartita superiore.

Quindi, non prezzo basso a tutti i costi?

La crisi sta facendo diventare il consumatore più razionale tanto da averlo stimolato a valutare la convenienza non solo in base al mero prezzo pagato per i prodotti ma in base al “conto economico” complessivo della spesa. In questo conto economico entrano in gioco numerose variabili, come i costi di trasferimento, i costi di stoccaggio, il costo-opportunità del tempo, la qualità del servizio ricevuto, l’esperienzialità dello shopping.
Questo porta a riflettere su un altro paradigma che è entrato in crisi: i primi prezzi. Questi prodotti sarebbero dovuti essere tra quelli a maggiore tasso di crescita in questi ultimi due anni.
Non è stato, invece, così e questo conferma che il consumatore non è disposto ad acquistare i primi prezzi a qualsiasi costo.
Anzi è disposto a privilegiare i prodotti e le marche premium se ne percepisce i valori.

Come, per esempio, la marca commerciale?

La marca commerciale è la sintesi dei modelli value for money, è la risposta dei supermercati al discount e, in qualche modo è, il tentativo delle insegne di consolidare a tutti livelli la fedeltà del ta. Ed è anche un segnale che evidenzia un nuovo approccio di marketing da parte della gdo per reagire alla crisi economica. Dietro al suo sviluppo ci sono numerose tematiche commerciali che, stimolate dalla crisi, stanno spingendo le imprese ad avere comportamenti più coerenti con le attuali condizioni di mercato.

Puntare, quindi, radicalmente sulle private label?

No, assolutamente. Anzi, in Inghilterra, dove la marca privata ha raggiunto alti livelli, è in atto un processo di contenimento dello spazio dato alla marca commerciale rivalutando, per diverse categorie di prodotto, il ruolo delle marche industriali. Il rapporto con la marca industriale è soprattutto una questione associata al grado di sostituibilità delle marche nei processi di spesa dei consumatori. La Pl cresce, ma a scapito di quelle marche che non hanno investito sui processi di differenziazione. L’orientamento della gdo tenderà ad essere sempre più un processo di scrematura dell’assortimento, con una modificazione della profondità delle categorie di prodotto.

Quindi logiche assortimentali più in chiave di marketing? E i buyer?

Questa crisi, se continuerà, credo comporterà, nella gdo, un maggior peso di chi “conosce” il consumatore: oggi, non basta essere bravi nella negoziazione con l’industria; è fondamentale, altresì, saper vendere. Così, se il ruolo del buyer è quello di acquistare i prodotti alle condizioni migliori, fino a che punto sono in grado di acquistare i prodotti che si vendono di più? Può anche succedere che il buyer acquisti prodotti che poi a scaffale finiscano per avere tassi di rotazione molto bassi e che, alla fine, rappresentino un costo. Andiamo verso una situazione in cui le logiche d’acquisto della distribuzione saranno meno di tipo finanziario, cioè legate agli sconti di fornitura, e più di tipo commerciale. In sintesi, sarà sempre più importante acquistare in funzione delle vendite e quindi maturare, anche per chi si occupa di acquisti, maggiori competenze di marketing. Se la crisi sarà lunga, avrà un impatto anche sulle strutture organizzative, sui processi aziendali, e sulle competenze manageriali.

Minore influenza della figura del buyer significa anche minore valore delle supercentrali d’acquisto?

Le supercentrali sono nate per spuntare migliori prezzi con l’industria e che le alleanze tra insegne diverse, sostenute comunque dalla presenza di insegne-guida, comportavano dei vantaggi negoziali. Con il calo dei consumi, la torta si è ridotta: ora il rischio è che le supercentrali contribuiscano a far sopravvivere competitor che, probabilmente, senza l’insegna guida della supercentrale, non avrebbero ottenuto i vantaggi negoziali che sono riusciti ad ottenere. Secondo me, la crisi sta facendo riflettere sul loro ruolo. Il vantaggio competitivo, fino a ieri, per la gdo, era la funzione dell’acquisto, per questo erano così importanti i buyer: oggi, oltre ai fornitori, contano sempre di più i consumatori e avvalersi di bravi marketing manager, avere bei pdv, saper realizzare promozioni innovative e ottimizzare la gestione degli scaffali sono elementi fondamentali. In questa prospettiva, ritengo che le supercentrali nazionali potrebbero avere alcuni problemi di consolidamento.



È più competitivo il discount evoluto, quasi assimilabile a un supermercato, o il classico formato hard?

Il discount? Cresceva a doppia cifra nel 2004. Oggi, a parità di rete ha una crescita negativa, mentre a rete complessiva cresce di soli 3%. Agli inizi della crisi, se ne ipotizzava una crescita forte. In realtà,
negli ultimi tempi, soprattutto la formula soft, sta soffrendo molto più dei supermercati e addirittura più dei superstore. In base ai classici paradigmi ci saremmo aspettati un boom della crescita dei discount perché in concomitanza di una crisi economica la risposta del consumatore avrebbe dovuto essere questa. Tra le principali cause vi è quella che il discount si è riposizionato nella formula soft e in alcuni casi si è quasi soprapposto al supermercato perché ha modificato gli assortimenti, aumentando la profondità della gamma, ha introdotto massicciamente le marche leader, ha cominciato a fare le promo come i super e a inserire i prodotti freschi. In alcuni casi, poi, si è messo addirittura a fare la pubblicità come i super. Ha quindi perso quella posizione distintiva, la sua natura hard. Nel momento in cui il discount perde questa sua natura e si avvicina al super in realtà perde il suo riferimento di clientela, spesso configurandosi quasi come un “brutto supermercato”. Per contro, chi ha mantenuto la sua formula hard mantiene un trend positivo. Inoltre, il supermercato ha reagito: ha inserito i primi prezzi,
svolge attività promozionali sempre più forti e, soprattutto, ha sviluppato la marca commerciale, che sta crescendo molto ed è una delle poche note positive della distribuzione moderna: in qualche modo anche la marca commerciale ha rappresentato una risposta al discount.

Quale futuro si può ipotizzare per il canale ipermercato?

Sono diverse le motivazioni che hanno messo in difficoltà il format dell’ipermercato. Tra le ragioni contingenti e congiunturali, si evidenzia che il consumatore comincia a fare meglio il conto economico della spesa, cioè considera, oltre al fattore prezzo del prodotto, tutti quegli elementi che incidono sul costo, quali il tempo, il costo del carburante e di trasporto, il servizio atteso e quant’altro. Su queste basi, il consumatore ha compreso che, in alcune situazioni, è complessivamente più conveniente andare tre volte la settimana al pdv sottocasa, piuttosto che all’ipermercato perché, oltre ai maggiori costi, limita anche il rischio di stoccaggio, evitando lo stimolo dell’offerta che gli propone l’iper. Infatti, ed è questo il tema primario, il consumatore, andando all’iper, finiva per comprare molto più di quanto consumava, in particolare relativamente ai prodotti freschi. Nostre analisi, ci indicano che, mediamente, acquistava 100 e consumava 80: quindi, non è che il consumatore, oggi, consumi di meno, ma semplicemente acquista meno. L’effetto negativo ricade in particolare sulle imprese, che quindi registrano un calo delle vendite. Un’altra causa del rallentamento degli ipermercati è che la popolazione italiana è invecchiata: è vero che lo diciamo da da oltre 20 anni, ma intanto è effettivamente invecchiata e gli iper, comportano per i consumatori anziani un processo di spesa più faticoso. Va aggiunto che l’iper sta soffrendo soprattutto a causa del non food, che vale circa il 40% del business, a seguito della competizione derivante dal consolidamento degli specializzati (i cosiddetti category killer), frequentati dal consumatore per le migliori condizioni di assistenza pre e post vendita. Infine, non si può tralasciare di dire che, chi ha sviluppato queste superfici in area 4, ha dovuto affrontare una concorrenza anche da parte della distribuzione tradizionale, ben inserita nei mercati locali. Con tutto ciò, la realtà di fondo è che l’ipermercato è un canale maturo in tutta Europa e il grande dilemma è quello di quale ruolo di marketing attribuire al non food: deve servire per comunicare la convenienza e quindi per creare traffico nelle grandi superfici, o piuttosto deve essere venduto con un livello di servizio adeguato, in modo tale da generare situazioni di fedeltà da parte dei consumatori? È chiaro che, se si sceglie la seconda strategia, bisogna comunicare al consumatore un livello più alto di specializzazione, di servizio, di merchandising, di assistenza. Il tentativo di rilancio di Carrefour con Planet (nella foto) che ha inserito la formula dello shop in shop, va in questa direzione: permette di comunicare il livello di specializzazione sulle singole merceologie di prodotto. Sono, quindi, diverse le ragioni che spiegano il rallentamento degli iper e dire oggi quale sarà il futuro di questa formula è difficile. Personalmente, penso che dipenderà dalla capacità di soddisfare meglio le necessità personali del consumatore, quindi, di dare un livello maggiore di servizio, ma molto dipenderà dalla congiuntura economica.

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