Shrinkflation: una questione di fiducia

Parliamo del mantenere inalterato il prezzo di un prodotto a fronte di una quantità nelle confezioni. un comportamento sotto l'occhio anche dell'Antitrust che mette a rischio il rapporto consolidato con i consumatori. Sotto accusa i produttori, con gli operatori della gdo che studiano nuove soluzioni

“Il rischio maggiore è il venir meno di quel rapporto di fiducia con i consumatori alla base della crescita della gdo”. Giorgio Santambrogio, amministratore delegato di Gruppo VéGé, non usa mezze parole per descrivere la posta in gioco a fronte della shrinkflation che si sta diffondendo sugli scaffali. Il riferimento è alla strategia di marketing, in virtù della quale le aziende reagiscono al carovita mantenendo inalterato il prezzo dei prodotti, a fronte di una riduzione delle quantità presenti nelle confezioni.

“Non si tratta di un fenomeno del tutto nuovo, il suo picco si è registrato con il passaggio dalla lira all’euro, quando sul mercato si è sviluppato un Far-West che ha tratto in inganno i consumatori”, ricorda Santambrogio.

Ma dopo anni di ‘restringimento’ delle confezioni, ora si rischia un punto di non ritorno. “Tutte le strategie sono lecite, ma i produttori dovrebbero essere chiari con i consumatori, fornendo adeguata comunicazione in merito”, aggiunge Santambrogio.

Un pensiero condiviso da Mario Gasbarrino, amministratore delegato di Decò Italia, il quale critica la scarsa trasparenza “su alcuni prodotti, approfittando della mancanza di vincoli normativi sulla pubblicità relativa alle quantità”. Dito puntato soprattutto su tovaglioli e carta igienica: “Basta infatti ridurre i veli per lasciare inalterato il volume delle confezioni e dare la sensazione illusoria che non siano state ridotte le quantità -racconta-. Ma sui prodotti di marca non si deve rinunciare alla trasparenza: la relazione di fiducia è un caposaldo fondamentale, ma ci vorrebbe parità di trattamento”.

Sotto accusa, dunque, i produttori, tra i quali non c’è voglia di commentare questo trend. Tutto nasce dall’accelerata dell’inflazione iniziata con la ripresa post-crisi pandemica della primavera 2021 e proseguita tra strozzature nelle catene globali di approvvigionamento e alla luce dell’invasione dell’Ucraina da parte della Russia. A maggio l’Istat ha rilevato un aumento dell’indice relativo ai prezzi dei beni di consumi nell’ordine dello 0,9% su base mensile e del 6,9% su base annua (in accelerazione rispetto al +6,0% rilevato ad aprile). Un livello che nel nostro Paese non si registrava dal marzo 1986. Torna ai picchi degli ultimi 36 anni anche il carrello della spesa, con i prezzi dei beni alimentari, per la cura della casa e della persona passati dal +5,7% di aprile al +6,7% di maggio.

Oltre all’impennata del carovita, preoccupa la tendenza costante al rialzo, mentre negli Stati Uniti (pure su livelli in assoluto più elevati, oltre l’8%) il picco sembra essere alle spalle. “Gli elevati aumenti dei prezzi dei beni energetici continuano a essere il traino dell’inflazione (con quelli dei non regolamentati in accelerazione) e le loro conseguenze si propagano sempre più agli altri comparti merceologici, i cui accresciuti costi di produzione si riverberano sulla fase finale della commercializzazione”, spiega l’Istat, precisando che “accelerano i prezzi al consumo di quasi tutte le altre tipologie di prodotto, con gli alimentari lavorati che fanno salire di un punto la crescita dei prezzi del carrello della spesa”.

L’inflazione acquisita per il 2022, cioè la variazione media che
si avrebbe ipotizzando che l’indice rimanga al medesimo livello nella restante parte dell’anno,è pari al 5,7%.

Sul tema ha acceso un faro anche l’Antitrust. L’Autorità per la concorrenza, come ha spiegato il direttore generale per la tutela del consumatore Giovanni Calabrò, “sta monitorando il fenomeno al fine di verificare se possa avere rilevanza ai fini dell’applicazione del Codice del Consumo, con particolare riferimento alla disciplina in materia di pratiche commerciali scorrette”. Quindi ha aggiunto: “Ciò che rileva non è la riduzione in sé della quantità di prodotto contenuta nella confezione (decisione aziendale legittima), quanto la trasparenza di tale modifica nei confronti del consumatore. In questo senso, condotte quali la diminuzione della quantità di prodotto a parità di dimensioni della confezione, in assenza di un’adeguata avvertenza sull’etichetta frontale, potrebbero essere ritenuti meritevoli di approfondimento”.

Una mossa apprezzata da Assoutenti. “Finalmente qualcosa si muove sul fronte dell’inflazione occulta determinata dalla pratica sempre più diffusa di ridurre le quantità dei prodotti lasciando intatti i prezzi”, spiega il presidente Furio Truzzi, che ricorda anche come questa tendenza “incida in modo pesante sulle tasche dei consumatori e, attraverso la riduzione delle quantità contenute nelle confezioni dei beni, svuota i carrelli fino al 30%”. La shrinkflation causa un duplice danno ai consumatori: da un lato, porta di fatto a un aumento del prezzo del singolo prodotto interessato, perché il consumatore paga lo stesso prezzo ma porta a casa meno contenuto; dall’altro, obbliga le famiglie a effettuare con più frequenza la spesa “perché una confezione che contiene meno prodotto termina prima, con effetti diretti sui bilanci familiari -aggiunge Truzzi-. Ben venga quindi l’indagine dell’Antitrust perché un simile fenomeno potrebbe costituire una pratica commerciale scorretta a danno dei consumatori”.

Anche nell’analisi di un soggetto terzo come Francesco Fiorese, partner di Simon-Kucher & Partners, la situazione è al limite. “Sui prezzi gli operatori sono da sempre chiamati a un difficile equilibrio: se li aumentano troppo rischiano di non vendere più; la vera difficoltà, quindi, consiste nel riuscire a stimare a cosa corrisponde il concetto di ‘troppo’ in una determinata stagione, evitando di accorgersene quando ormai è tardi, quando cioè i clienti hanno già abbandonato e cercano nuovi lidi”. La società ha da poco realizzato un sondaggio chiedendo agli operatori economici quali misure stanno adottando o prevedono di adottare per contrastare l’aumento dei costi che si trovano ad affrontare. In Italia il 60% ha risposto “un incremento dei prezzi al consumatore finale”, un dato leggermente superiore al 57% rilevato a livello globale. Il 20% delle imprese italiane si focalizza piuttosto su vendite e marketing con la speranza di aumentare i volumi (il 19% a livello globale) e il restante 20% sta adottando processi più efficienti/più economici. In quest’ultimo caso, a livello mondiale, la quota è del 24%,a conferma che c’è margine di efficientamento nel nostro Paese. Quanto ai criteri adottati per definire l’ammontare di adeguamento dei prezzi, a fronte della possibilità di fornire risposte multiple, un quarto degli operatori non adotta strategie particolari, mentre una quota analoga ha deciso che i clienti non profittevoli ricevano un aumento di prezzo maggiore, anche se la tendenza prevalente è quella di applicare per tutti la medesima strategia.

“La shrinkflation esiste da tempo, ma negli ultimi mesi ha raggiunto livelli di diffusione particolarmente elevati: salviette, sughi, pasta sono solo alcuni dei prodotti sugli scaffali che di recente hanno visto ridurre le quantità -ricorda Fiorese-. A grandi linee registriamo tra i consumatori l’accettazione di questo stato di cose se si tratta di cambiamenti minimi, ma il punto di rottura è vicino”.

In questo scenario, Simon-Kucker & Partners vede, da una parte, ampi spazi per la crescita delle mdd, dall’altra una progressiva polarizzazione dei consumi. “Da una parte crescono le vendite dei prodotti premium, mentre i consumatori maggiormente colpiti dalla crisi si orientano verso prodotti a prezzo contenuto”.

Andrea Petronio, senior partner di Bain & Company, ricorda che “la riduzione della quantità di prodotto e la diminuzione della grandezza del packaging a parità di prezzo sono tra le pratiche più comuni. Difficilmente i consumatori ricordano il prezzo/kg di ogni prodotto nel carrello, soprattutto quando la riduzione è legata a un restyling del packaging: ed è proprio su questa asimmetria informativa che le aziende fanno leva”.

Torna, dunque, il tema della fiducia. Petronio ricorda anche che il fenomeno è in forte espansione a livello globale e riguarda soprattutto i prodotti più venduti delle marche molto conosciute. “Già nel 2017 nel Regno Unito e negli Stati Uniti circa il 2% dei prodotti era stato impattato da questo fenomeno e, nei prossimi mesi, ci attendiamo un raddoppio di questo valore -sottolinea Petronio-. Nel Regno Unito, l’80% dei clienti negli ultimi dodici mesi ha notato questa tattica, soprattutto nell’acquisto di snack dolci e piatti pronti”.

In Italia il trend non è diverso: “Già nel 2017, secondo l’Istat, nel nostro Paese oltre 7.000 prodotti avevano subito riduzioni; ad oggi, sempre più aziende vi fanno ricorso, come mostra anche il recente esposto presentato all’Antitrust”, aggiunge Petronio. Quanto ai consumatori, Petronio vede come soluzione più “sicura” la preferenza per “i prodotti freschi e sfusi, dove la riduzione di quantità o la sostituzione delle materie prime è limitata. Inoltre, considerato che i brand non riducono simultaneamente tutte le versioni dello stesso prodotto, è possibile evitare la shrinkflation cambiando confezione, spostandosi verso quelle non ancora impattate dall’effetto”.

“Il fenomeno deve essere gestito con grande attenzione, da parte dei brand: considerando che solo il 45% dei clienti preferisce la riduzione della quantità rispetto all’aumento dei prezzi, l’escamotage potrebbe mettere
a rischio la fidelizzazione
del cliente”.
Andrea Petronio, BAin & Company

BOX 1: Quale sarà l’impatto della guerra
L’Italia importa da Russia e Ucraina una quota cumulata del proprio fabbisogno alimentare di circa il 2%. Una quota minima, ma il nostro Paese non è autosufficiente per molte produzioni agricole (frumento, mais in testa) e quindi deve comprarle sul mercato internazionale. Così, si legge nello studio di Nomisma intitolato “Scenari in movimento per l’agroalimentare italiano ed europeo”: anche se le merci non sono acquistate direttamente da Russia e Ucraina, si tratta di due tra i principali esportatori di queste derrate; di conseguenza, se smettono di esportarle, le quantità disponibili sul mercato si riducono e i prezzi si impennano.In particolare, in Italia la produzione di frumento tenero copre appena il 38% del fabbisogno nazionale e questi due Paesi sono responsabili congiuntamente del 30% dei volumi scambiati a livello mondiale del cereale. Molto forte è anche la loro incidenza su orzo (28% come dato cumulato), olio di girasole (57%) e mais (17%).

BOX 2: Margini sotto pressione tra i big internazionali
Il carovita pesa sui conti dei grandi retailer americani. A metà maggio, Walmart e Target sono crollate (salvo recuperare in parte terreno) a Wall Street perché tra gli investitori si è diffuso lo scetticismo in merito alla loro marginalità, dato che le due catene sono impegnate a trasferire il meno possibile l’aumento dei costi ai consumatori.
Target ha ceduto un quarto del proprio valore in una sola seduta, quella in cui ha pubblicato una trimestrale al di sotto delle attese e comunicato l’aumento del prezzo del carburante e del trasporto nell’ordine di 1 miliardo di dollari. Walmart ha invece sottolineato che i problemi della catena di approvvigionamento e l’aumento degli stipendi hanno eroso i profitti e non si vede una svolta all’orizzonte. In passato Walmart scaricava il rialzo dei costi legati alle materie prime sui consumatori, ma questa volta l’impennata è così violenta da rendere impossibile questo passaggio. Anche altri titoli quotati, da Best Buy a Macy’s, da Sporting Goods a Costco, hanno perso terreno in Borsa.

BOX 3: l’inflazione pesa per 229 euro su ogni italiano
Secondo uno studio di Allianz Trade da poco pubblicato, i prezzi relativi ai generi alimentari quest’anno cresceranno mediamente del 23% dopo il +31% del 2021 rispetto al 2020. La ragione principale indicata dalla società del gruppo Allianz attiva nell’assicurazione crediti (con specializzazione in cauzioni, recuperi, credito commerciale strutturato e rischio politico) è l’aumento dei costi delle materie prime come il carburante, l’elettricità e i fertilizzanti. Un contributo arriva anche dai modesti rendimenti agricoli, che si sono tradotti in basse scorte, e, più recentemente, dall’invasione russa in Ucraina. Una situazione che inevitabilmente impatterà sui consumatori finali. Stimando che i retailer, prima o poi, trasferiranno sui prezzi al consumo tre-quarti degli aumenti dei costi della produzione, gli analisti prevedono che l’inflazione alimentare inciderà sulla spesa del consumatore europeo in media 243 euro in più, per lo stesso paniere di prodotti alimentari, rispetto al 2021, mentre in Italia l’incremento è di 229 euro.

BOX 4: Confimprese lancia l’allarme sui consumi
“L’impennata dell’inflazione, spinta dal rincaro dei beni energetici, ricade anche sul commercio, già fortemente compromesso dalla pandemia”. È il pensiero di Mario Resca, presidente di Confimprese, che non vede positivo per i prossimi mesi a causa di un carovita destinato a restare su livelli elevati tra speculazione e instabilità dello scenario internazionale. “È necessario aumentare i salari per dare più potere d’acquisto alle famiglie, ma ciò si ripercuote sui prezzi al consumo in una spirale da cui è difficile uscire. Non possiamo fare previsioni, ma solo sperare che l’inflazione non cresca a doppia cifra”, aggiunge.Intanto, secondo l’associazione il primo quadrimestre ha visto un calo dei consumi nell’ordine del 16% rispetto allo stesso periodo del 2019: hanno pesato soprattutto i primi due mesi di quest’anno, segnati sia dalla recrudescenza del virus, che ha costretto in casa milioni di italiani, sia dall’incertezza legata al conflitto in atto, mentre ad aprile ci sono stati segnali di risveglio. Quanto ai formati dell’offerta, ancora negativi i centri commerciali e le high street, andamento positivo, invece, per i negozi di prossimità.

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