Slow Food: «La Gdo deve scommettere sulla sostenibilità »

Tra premi Nobel e politici di chiara fama, Carlo Petrini è nell'elenco delle 50 persone che, secondo il quotidiano inglese The Guardian: «Potrebbero salvare il mondo per il loro impegno nel combattere inquinamento ed effetto serra, nella salvaguardia degli ecosistemi, nella promozione di metodi di sviluppo sostenibile, nella tutela di specie animali e vegetali in via d'estinzione». Slow Food, associazione fondata da Carlo Petrini nel 1986, con l'intento di “educare al gusto”, ha da tempo allargato i suoi orizzonti, assumendo un ruolo internazionale ed esprimendo la propria filosofia con il neologismo di movimento “ecogastronomico”.

Perché la scelta di questa definizione?
Siamo stati così definiti dal New York Times nel 1998 e ci siamo affezionati a questo neologismo perché il nostro intento, fino alla metà degli anni '90, era stato quello di occuparsi di gastronomia, senza collegarla alle sue ricadute sull'ecosistema.

Certo, ma oggi, di fronte alla crisi dei consumi, si guarda più al prezzo...
Pochi hanno notato che, al momento, i prodotti di alta qualità mantengono i propri prezzi. Ad aumentare sono quelli delle commodity: è qui la bolla speculativa. Le concause sono tante, dall'aumento del prezzo del petrolio, l'emissione di future su riso e cereali fino ai cambiamenti di stile alimentari in paesi come la Cina, passata da un consumo di carne di 20 kg pro capite a 50 kg all'anno: questo determina una lievitazione di beni di largo consumo, non dei prodotti di eccellenza.

Però si comprano più prodotti commodity che di nicchia...
Dobbiamo distinguere tra chi come noi spende una media del 15% del reddito per alimentarsi e chi invece ne spende il 50/60%. Tuttavia è opportuno inserire due grandi elementi virtuosi: accorciare la filiera e praticare economie di utilizzo degli alimenti in maniera più razionale, sia nell'ambito domestico che nella distribuzione. Il fatto che solo in Italia si buttino via, ogni giorno, 4mila tonnellate di cibo grida vendetta. Dobbiamo ritornare al buon senso del mondo contadino: oggi, siamo veramente in una dimensione in cui non diamo più valore al cibo e nel contempo viviamo con preoccupazione questi aumenti, intanto gettiamo tonnellate di cibo.

Quindi, meno cibo ma di migliore qualità?
È importante riconsiderare il modo di alimentarci, anche con una certa morigeratezza. Non vuol dire votarsi a una dimensione di sacrificio e di tristezza, assolutamente. Penso che il piacere sia garantito da un rapporto più sereno con il cibo, meno ingordo e magari più colto; senza la crapula che a lungo andare crea problemi anche di salute.

E in gdo c'è spazio per i cibi che voi definite buoni, puliti e giusti?
Quando ipotizzavo questo con Eataly, Coop e altre catene della distribuzione mi consideravano alla stregua di un folle, perché l'elemento fondante della gdo è basato in un certo qual modo sull'eccedenza, una domanda che va rarefacendosi sostituita dalla domanda di cibo di qualità, da non confondersi con il desiderio del lusso. È con questa visuale che si creano spazi per nuove alleanze tra produttori e consumatori, che vanno considerati come co-produttori, in quanto il consumo non è un atto separato dalla produzione, bensì la sua ultima fase. Il consumatore, quindi, se prende coscienza del suo ruolo di co-produttore, lo può interpretare in modo responsabile e cosciente.

E come dovrebbe muoversi la gdo?
Il ruolo della distribuzione deve superare il paradigma 'di comprare a meno per vendere a più'. è indubbio che ci debba essere un ritorno per la gdo, ma questo esige un suo cambiamento di ruolo, anche perché se così non fosse, sono convinto che avrebbe i giorni contati. Deve cioè assumere un ruolo di informatore, di fornitore di servizi, quali l'educazione al consumo e alla responsabilità ambientale. Inoltre, la gdo deve saper offrire prodotti buoni organoletticamente, puliti perché prodotti facendo attenzione all'ambiente, giusti perché chi li produce è equamente remunerato

Giorni contati quindi per la gdo?
Certo. Sempre che non realizzi una profonda rivoluzione del suo modo di essere e questo esige che presti molta attenzione a un fenomeno che, volente o nolente, andrà a incrementarsi, cioè la rilocalizzazione dell'agricoltura. Mi spiego: se un supermercato virtuoso di Torino propone prodotti tipici della Val Susa, quello di Bologna dovrà avere i prodotti della Val di Taro. Sono d'accordo che la bottiglia del Brunello arrivi all'altro capo del mondo, ma qui stiamo facendo viaggiare le melanzane da un continente all'altro. È una produzione, un'offerta, non sostenibile per l'ambiente, perché non si considerano fino in fondo i riflessi negativi sull'intero pianeta.

Come conciliare la rilocalizzazione dell'agricoltura con la diffusione del food made in Italy? Il prodotto tipico della tradizione italiana è già di per sé uno degli elementi trainanti del made in Italy: culatello o parmigiano reggiano sono nomi evocativi che in ogni angolo del mondo si identificano come elemento di italianità. In generale, però, i tipici sono prodotti che hanno un limite fisiologico: se si vuole incrementare a dismisura le quantità di questi prodotti si rischia di rovinarne l'immagine e la qualità. Senza dimenticare l'economia che coinvolgono, grandi quantità prodotte portano a un abbassamento dei prezzi al consumo con conseguente diminuzione della remunerazione per gli artigiani o per i contadini coinvolti nella produzione. Nel mercato gastronomico, ogni alimento deve essere analizzato in sé per trovarne la produzione massima sostenibile. Il suo limite produttivo è, in realtà, anche la sua forza.

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