Il retail della moda non può imitare la formula Zara

Il retail dell'abbigliamento dovrà cambiare strada per conquistare un consumatore impoverito dalla crisi e sempre più informato sulle proprie scelte grazie a Internet e al Web 2.0. È questa la conclusione principale del convegno “Retail di successo nell'era post recessione”, organizzato da Sistema Moda Italia e Ispira. In realtà la distribuzione della moda in Italia è già stata “scossa” nell'ultimo decennio dalla rivoluzione del fast fashion, ovvero dalle grandi catene come Zara e H&M, che sono riuscite a conquistare una larga fetta di pubblico grazie a un'offerta variegata e a una politica di prezzi contenuti.

Zara e il visual merchandising
La spagnola Zara, nel nostro paese dal 2002, vende ormai 40 milioni di capi di vestiario l'anno in Italia e può contare su un bacino di 7-8 milioni di clienti. Il punto vendita di Corso Vittorio Emanuele a Milano è addirittura quello con le vendite più alte di tutta la catena a livello mondiale. Anche il primo semestre del 2009 è stato positivo per il gruppo iberico, che però sostiene di non avere una ricetta ridiga, come ha evidenziato nel corso del convegno l'amministratore delegato di Zara Italia, Marco Agnolin: «Al contrario di quello che si potrebbe pensare, Zara non significa standardizzazione della moda. Abbiamo una grandissima varietà di referenze e, inoltre, parecchi capi sono in serie limitata e finiscono soltanto in alcuni negozi. Questo consente ai nostri clienti una certa personalizzazione. In generale, un gruppo come il nostro deve implementare una serie di azioni pratiche giorno dopo giorno. Attribuiamo molta importanza, ad esempio, al visual merchandising. Ogni due settimane rivediamo sistematicamente l'esposizione di tutti i nostri punti vendita».

Un retail ancora legato ai centri storici
L'esempio del fast fashion non può però essere seguito da tutto il retail dell'abbigliamento italiano, anche perché, come ha sottolineato Domenico Menniti, Ceo di Harmont & Blaine, «Zara può seguire la logica del visual merchandising grazie alla notevole dimensione dei suoi punti di vendita». Nella distribuzione italiana dell'abbigliamento, invece, hanno ancora un peso importante (poco meno del 50% della quota di mercato) i piccoli negozi al dettaglio multimarca, nonostante la flessione registrata negli ultimi anni. L'Italia rimane poi il paese dello shopping nei centri storici, una rarità in un panorama occidentale ormai dominato dai grandi shopping mall. A questa situazione di base si aggiunge la profonda trasformazione del consumatore occidentale, ormai capace di informarsi su Internet riguardo alle merci e ai capi di vestiario da acquistare e, non di rado, di influenzare il comportamento altrui attraverso commenti su blog e social network.

L'importanza del valore percepito
La comunicazione del retailer su Internet diventa perciò fondamentale: la catena americana Macy's ha calcolato che ogni dollaro speso per implementare il negozio on line ne genera altri sei di acquisti sui negozi fisici. Un valore aggiunto a cui difficilmente si può rinunciare, specialmente in un momento di crisi in cui i consumatori sono meno disposti a spendere senza criterio. Spaventati dalla recessione, molti attori del settore (Dolce e Gabbana, A&F) hanno annunciato una politica di taglio dei prezzi, ma il low cost non può essere una strategia vincente a lungo termine per i retailer, pena gravi problemi di redditività. «Il vero driver dei consumi odierni - ha spiegato Luca Peruzzi, direttore di Ispira - è il valore percepito. I dettaglianti devono perciò mantenere una dinamicità dell'offerta e lavorare per creare un senso di urgenza nell'acquisto. Occorre cioè far capire ai consumatori che se non acquistano un oggetto subito rischiano di non trovarlo più. Altrimenti tutti aspettano i saldi e rimandano gli acquisti, riducendo così i margini per i dettaglianti. In quest'ottica occorre far arrivare nei negozi meno volumi e puntare invece su produzioni più personalizzate ed eventi ad hoc».

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