Maffesoli: “La qualità dell’esistenza è da porre al centro delle strategie aziendali”

"L'estetica non puo più essere ridotta alla sola dimensione artistica e figurativa; abbraccia, piuttosto, la globalità dell'esistenza”. Questa frase esprime e contiene uno dei nodi focali del pensiero di Michel Maffesoli, professore alla Sorbonne e noto studioso delle tribù, del dionisiaco, del sensibile e delle emozioni, del postmoderno e del profondo “vuoto” che si annida nella superficialità delle apparenze e della vita quotidiana. Fondatore e direttore del Centro di Ricerca sul presente e la vita quotidiana (Ceaq), Maffesoli è autore di numerose opere tradotte e studiate in diverse lingue e paesi.
Tra le sue ultime pubblicazioni italiane, si segnala il volume Apocalisse. Rivelazioni sulla socialità postmoderna, (editore Ipermedium, vedi recensione su Gdoweek n.11, e tradotto dagli autori dell'intervista, ndr). Proprio da quest'ultimo saggio prende il via la nostra conversazione.

“La crisi non ha mai avuto luogo” è una affermazione di Jean Baudrillard che sembra condensare le riflessioni presenti in “Apocalisse”. Quella attuale è, quindi, una crisi sociale più che economica?

Rispetto alla crisi del 1929, che possedeva una natura prettamente economica, quella attuale è una crisi di tipo “societale”, ovvero strutturale. Il tema dell'Apocalisse mi sembra particolarmente calzante: quello che avviene è un cambiamento dei modi d'essere. La crisi economica e finanziaria non è altro che il sintomo di un cambiamento più profondo.

Oggi è possibile pensare e immaginare una ridefinizione del valore dei soggetti, degli oggetti, del lavoro e dell'economia?

Bisognerebbe riconsiderare le grandi categorie moderne. Il soggetto non può più essere pensato come equivalente del semplice individuo razionale (secondo la versione taylorista) ma piuttosto come gruppo, come tribù. Ciò comporta una cultura manageriale differente rispetto al passato nonché cambiamenti profondi nell'ambito della vita politica e sociale. Mentre la modernità considerava gli oggetti come inerti e dominabili, la postmodernità li considera al contrario come attivi e animati, stabilisce un processo di reversibilità tra i soggetti e le cose. Lo stesso vale per il lavoro: mentre prima era un valore essenziale, il mezzo mediante cui realizzare la propria personalità, oggi assume un valore solo strumentale. L'idea di creazione prende il sopravvento, spostando tutta l'attenzione sull'aspetto qualitativo dell'esistenza. L'economia di conseguenza dovrebbe assumere una visione molto più globale, nel tentativo di aderire ai cambiamenti in atto.

In relazione a queste ultime considerazioni quali sono, o dovrebbero essere, le culture e le strategie della classe manageriale?

Ritengo che la classe manageriale sia più attenta al “presente” del mondo politico e universitario. Mentre politici e docenti restano chiusi nel dogmatismo o persi nell'astrazione, i manager sono più aperti, hanno un fiuto più sviluppato nel percepire lo spirito del tempo. Per vendere e produrre, essi hanno bisogno di aderire alla contemporaneità, ovvero di includere all'interno delle loro culture e strategie l'aspetto qualitativo dell'esistenza. Corea, Giappone e Brasile sono, a mio avviso, le realtà dove questo “sentire” è già perfettamente operativo. Si pensi, ad esempio, alla Casa do Saber di San Paolo, finanziata da imprese e fatta per manager che seguono lezioni su Nietzsche, Deleuze, postmodernità, psicologia etc.

La crisi coincide anche con il disfacimento delle tipiche strategie di pianificazione. A favore di quali modalità o tattiche?

Come tutte le istituzioni ottocentesche anche l'impresa resta inchiodata alla logica del progetto. Una logica che tende a proiettare gli sforzi e le energie verso il futuro, verso la realizzazione di uno scopo lontano. Al contrario oggi prevale una logica “presenteista”, un vivere giorno per giorno, istante dopo istante. La pianificazione dovrebbe includere nelle sue tattiche l'idea di continui cambiamenti (cose, umori e mentalità) e conseguenti adattamenti.

Quale tipo di immagine assumono allora le pratiche aziendali? Si tratta di un paradigma segnato dal gioco e dall'istante?

Il futuro di un'impresa dipende oggi dalla sua capacità di integrare la creatività, il ludico, l'onirico, insomma l'aspetto qualitativo dell'esistenza. Si tratta di elementi che la funzionalità moderna aveva escluso o marginalizzato e che oggi, al contrario, disegnano la natura e la performance del vissuto. Questo vissuto è caratterizzato dalle emozioni e dalle apparenze; elementi che hanno profondamente trasformato la vita politica così come quella dell'impresa, e che al tempo stesso disegnano un tessuto sociale fondato sulla condivisione delle emozioni.

Spostando l'attenzione dall'ambito della produzione a quello dei consumi, quale natura e quali valori assumono i consumatori e più in generale il mercato?

Il consumo andrebbe inteso in modo differente rispetto al passato: non più bisogno ma desiderio. Mentre prima esso era incardinato in una logica funzionale e razionale, oggi al contrario è l'espressione di una tensione ludica. Esiste un “effetto impulso”: si spende al di là dei propri bisogni e delle proprie possibilità, spinti solo dal desiderio e dalla voglia di consumare. Le cose sono prodotte immaginando già la loro obsolescenza, vengono vissute ma immediatamente riconosciute come effimere. Anche in questo caso prevale una logica “presenteista”, una sorta di “istante eterno”.

Lei ha parlato di tribù: quali sono i luoghi del retail e dello shopping, reali o virtuali, che meglio vi si interfacciano?

Nel Medio Evo i luoghi caratteristici del commercio (da me inteso come circolazione di beni, idee, desideri, pulsioni) erano le cattedrali. Oggi questi luoghi emblematici sono rappresentati dai grandi centri commerciali, dalle cittadelle della moda o del design. Luoghi dove avvengono circolazioni e scambi simbolici, incontri tra le varie tribù, unioni intorno agli oggetti. Medesimo discorso si potrebbe fare per le reti.

Infine, la pubblicità classica è ancora in grado di relazionarsi con l'immaginario dei consumatori, o sono altri gli strumenti di marketing più consoni alla postmodernità e quali?

La pubblicità svolge oggi un ruolo estetico e non commerciale. Serve a cristallizzare il vissuto e a richiamare l'inconscio collettivo. Diventa una vera e propria arte capace di incarnare i bisogni e i desideri di un gruppo. La pubblicità funziona solo ed esclusivamente se riesce ad esprimere e soddisfare i desideri di una data tribù. Il marketing, per essere efficace, dovrebbe guardare alle contaminazioni delle mode in atto nella Rete. Una contaminazione da cui deriva un marketing delle tribù che quindi ha luogo nell'orizzontalità della Rete e in particolare nei siti di social network. In questi si esprimono infatti le mode, le affinità e le emozioni delle persone. Internet crea tribù di ogni tipo generando una sorta di reincanto del mondo, vero e proprio tratto specifico della postmodernità. È in questa direzione pertanto che dovrebbe guardare il marketing.

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